Venerdì 15 e sabato 16 marzo Firenze ha ospitato i familiari delle vittime di mafia, mostrando all’Italia intera -e non solo- che esiste un Paese diverso rispetto a quello governato dalla logica mafiosa della prevaricazione, del profitto e dell’ingiustizia. I colori e i volti delle centocinquantamila persone che hanno animato il corteo che ha percorso la città, sono il simbolo di un risveglio delle coscienze che sta coinvolgendo l’intera penisola e, in particolare, i giovani. Don Ciotti, insieme al Procuratore capo di Firenze Giuseppe Quattrocchi, al sindaco di Firenze Matteo Renzi, al Segretario generale della CGIL Susanna Camusso e molti altri, dal palco, ha rivolto a tutti l’appello alla memoria delle vittime di mafia, perché non vengano uccise una seconda volta dal silenzio, dall’indifferenza, dalla rassegnazione e dal cinismo. Sono le parole irresponsabili pronunciate da uomini di potere, l’addomesticamento delle coscienze e l’omissione della verità alcune delle cause principali dell’oblio della memoria. Invece, per innescare un cambiamento nella mentalità e nelle coscienze, la memoria deve restare sempre viva, come un monito e una luce che ci guida, perché la disumanità non divenga qualcosa a cui è possibile abituarsi. Solo restituendo dignità alle vittime di mafia e alle realtà in cui la mafia governa, questo fenomeno può essere estirpato. Perché la dignità vinca sulla disumanità occorrono inoltre la responsabilità di tutte le parti in gioco e l’unione di esse. Ma non basta, perché la mafia possa essere sconfitta -e questo è il traguardo che le giornate del 15 e 16 Marzo si sono poste- occorre restituire dignità all’Italia per mezzo della cultura, della lotta alla povertà e alla disoccupazione, per mezzo di una rinascita della moralità pubblica e grazie a leggi che prevedano la confisca di tutti i patrimoni mafiosi. Anche la povertà, quindi, dovrebbe diventare illegale, perché disumanizzando chi la vive, la povertà aiuta l’illegalità e le mafie, che sfruttano simili situazioni per imporsi. Il 16 marzo è stata la dimostrazione del fatto che è possibile che il dolore di chi ha subito lutti a causa delle mafie può trasformarsi in impegno. Infatti, come sosteneva Caponnetto, la mafia teme assai di più la cultura che la giustizia. Perché la cultura, quella vera, fatta per tutti, innesca nelle coscienze una trasformazione capace di produrre disobbedienza. E disobbedire alla logica della violenza, dell’imposizione e della disumanizzazione dell’altro è il primo passo per delegittimare le mafie e il loro “modus operandi”. È giusto che ciascuno, nella vita, possa scegliere il proprio modo di vivere liberamente, in vista della felicità propria e quindi altrui e, per questo, è giusto che iniziative come il 16 Marzo si ripetano, in modo tale che tutti coloro che lottano contro le mafie possano non sentirsi soli e far sentire la loro voce pressante all’unisono. Restituire dignità vuol dire anche che le istituzioni devono accogliere il grido di dolore di chi ha perso i propri cari per la giustizia e perché ci fosse chi ancora ama il prossimo, anziché schiacciarlo. Le istituzioni devono farsi carico di costoro e non devono permettere che i morti di mafia muoiano per la seconda volta. Noi tutti non dobbiamo dimenticare mai la nostra storia.
La storia di Rita Atria
Rita Atria si uccise nel 1992, a soli 18 anni, una settimana dopo la strage di Via D’Amelio, in cui il giudice Paolo Borsellino perse la vita. Nella lettera che la giovane lasciò prima di gettarsi dal settimo piano del palazzo in cui viveva nascosta a Roma era scritto:
« Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta ».
Per Rita, Borsellino era come un padre, a soli 17 anni infatti, questa giovane aveva scelto di collaborare con la giustizia perché venisse detta la verità sugli omicidi del padre e del fratello. Questa scelta costò cara a Rita che si ritrovò sola e venne ripudiata dalla madre, che dopo la morte distrusse la lapide della figlia a martellate. Donne che, pur appartenendo a famiglie mafiose, si ribellano. Donne che, pur rischiando la vita, disobbediscono. Donne che però si ritrovano sole, perché la lotta alla mafia costa troppo cara, perché richiede di diventare eroi e eroine, che combattono da soli contro giganti spietati. Questo è il primo errore della retorica dominante, infatti, solo decostruendo il mito “dell’eroicità della lotta alla mafia”, questa battaglia può diventare quotidiana e estesa a tutti e, in questo modo, vincente. Sono molte le storie di donne che hanno lottato contro la mafia e non è un caso che si tratti di personaggi femminili. Col loro bagaglio emotivo, quotidiano e corporeo, le donne resistono alla logica mafiosa meglio degli uomini, perché proprio quella “mentalità mafiosa” che le riduce ai margini, fa in realtà di loro le depositarie di una logica totalmente eversiva. Proprio perché la donna è colei che è destinata all’obbedienza, diventa anche colei che può fare la scelta radicale della disobbedienza e questo, pone nelle mani delle donne un grande potere trasformativo, anche se questo potere percorre vie secondarie per mostrarsi. Queste vie sono quelle dell’emotività, di un linguaggio-altro rispetto a quello della violenza. Le donne che hanno scelto di disobbedire alla mafia, diventando testimoni di giustizia, dissociandosi, o semplicemente non cedendo alle intimidazioni o ai compromessi, sono donne che scelgono il rispetto di sé e della loro libertà. Come sosteneva Basaglia nelle “Lezioni brasiliane”, le donne sono in minoranza, soprattutto per la debolezza che deriva dalla loro emarginazione socio-culturale storica, e per questo non possono vincere ma solo convincere. Il potere di convinzione che hanno le donne, però, è destinato a essere più forte di quello che vince, in quanto la convinzione innesca un processo di trasformazione. In questo modo, a partire dal ruolo femminile, il “mito dell’eroe che lotta contro la mafia”, pagando con la solitudine o con la morte il prezzo della propria scelta, può essere decostruito. Se, al posto dell’eroicità, si fa spazio a comportamenti positivi quotidiani e umani, l’antimafia può vincere senza più produrre continuamente morti, perché in questo modo nasce una battaglia che è nelle mani di tutti, senza più bisogno che vi siano eroi soli da celebrare.