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Storie di straniere che ad Arezzo cercano riscatto nell'emancipazione. Corsi di italiano e cucito, ma di nascosto dai mariti

Una realtà vissuta in tutto il Paese ed anche in città. Analisi del fenomeno

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I loro volti parlano più delle parole. In quegli occhi neri si leggono storie di vita che hanno plasmato i tratti somatici, rendendoli senz’altro tipici di chi ha  conosciuto la sofferenza. Questi visi carichi di echi parlano della fatica di “esser donna” . Donne, appunto, di tutte le età, per lo più giovani o giovanissime, molte già madri, che hanno attraversato chilometri per seguire i loro uomini. Si, seguire i loro uomini. Questa sembra essere la sorte di molte ragazze che, da paesi di origine musulmana, emigrano in Europa, ed anche ad Arezzo. Per la maggior parte di loro, nonostante la migrazione, il destino resta immutato. La loro condizione rimane “di sudditanza” anche nella nostra città, così come lo era in quella d’origine.

Si apre qui uno scenario inesplorato: il mondo delle donne pakistane, bengalesi, iraquene, iraniane, algerine, marocchine, afghane, africane che vivono sulla loro pelle, sui loro corpi e sulle loro anime, gli strascichi e le cicatrici inflitte dalla cultura che le ha partorite. Una cultura che le vuole ancorate “al loro posto” e che le isola da ogni possibilità di libertà e autonomia. La dipendenza economica, insieme a quella culturale e psicologica, sono infatti alcuni dei principali “strumenti di sudditanza” che -ancora oggi e non solo nei paesi di origine islamica- impediscono a molte donne di fiorire nella loro singolarità. Ognuna di queste giovani ha alle spalle una storia carica di emozioni, carica di esperienze psicologiche che, spesso, hanno lo stesso impatto che ha un muro contro cui si va a sbattere. Perché proprio di un muro si tratta, in quanto nessuna di queste ragazze ha scelto di nascere in un contesto in cui le aspirazioni di un individuo, per il semplice fatto di avere una sessualità anziché l’altra, vengono recise sin dal principio. Quello della prevaricazione e della privazione della libertà di pensiero è, infatti, il carcere più tremendo che esita: le sue pareti, non materiali ma ideologiche, imprigionano ben più di quanto possano fare delle mura di cemento. Molte delle donne che incontro vivono in casa loro come in un carcere.

Le loro giornate sono scandite dai doveri domestici, dall’accudimento dei mariti, e quindi dei figli. Nessuno spazio è lasciato alla valorizzazione di sé, nessuno spazio è destinato a compiere azioni, o gesti, in autonomia. Molte delle donne che incontro vivono la loro affettività come una prigione e sono private anche della possibilità di scegliere liberamente come gestire i loro sentimenti. Eppure, dagli occhi di queste giovani emerge la speranza. Una speranza che nasce dalla consapevolezza –anche se sommessa- che queste donne hanno di essere persone in senso pieno. Nei loro sguardi si scorge la voglia di farcela, il bisogno di cambiare l’ordine delle cose. Ed è con questa forza, che le giovani che incontro si raccontano. Si aprono e, gradualmente, dai loro occhi emerge un carattere, emerge una volontà di scelta, emergono delle preferenze, dei gusti. Emerge un’identità che non è fatta solo di un corpo, ma di desideri, di bisogni, di volontà. Angeli del focolare -senza cui i loro uomini sarebbero persi- queste donne, nell’apparente accettazione del loro ruolo, celano il germe della consapevolezza che quello che la vita può offrire loro è molto di più di quello che hanno vissuto le loro madri. Liberare le figlie, e le nuove generazioni, per liberare anche le madri, per riscattare secoli di violenze e violazioni subiti dalle donne. Questo è il desiderio che accomuna le giovani che intervisto.

Ad Arezzo si ritrovano nascosto per imparare l’italiano, il primo strumento che può fornire loro un’autonomia, o per imparare a cucire e cercare, così, di aprire la loro strada ad un mestiere. Con l’aiuto di volontarie locali, i momenti in cui si svolgono i corsi diventano l’occasione per confrontarsi, per aprirsi, per trovare uno spazio di comprensione e sviluppo di una consapevolezza di sé differente da quella che si genera restando chiuse fra le mura domestiche. L’energia e l’entusiasmo che queste donne mettono nello studio è sorprendente. Sanno bene che stanno appropriandosi dei primi necessari strumenti per dare a loro stesse delle possibilità di vita diverse, o, se non possono fornirle a sé, in questo modo aprono una strada nuova alle loro figlie, che avranno davanti ai loro occhi delle madri consapevoli, e non più succubi. Le donne diventano così depositarie, all’interno delle loro famiglie, di una prospettiva di vita diversa. Nonostante gli ostacoli, le minacce  e le violenze di certi mariti, il processo di sviluppo di un’autocoscienza non può essere frenato. Ed è di questo che le donne che ho incontrato mi parlano: si sorprendono di come, con semplici strumenti come la padronanza dell’italiano, la loro coscienza di sé sia mutata. Piccoli passi che fanno scoprire quante potenzialità dimorino  in ciascuno di noi. Pian piano, ognuna di loro impara la cura di sé e lo sviluppo della fiducia.

Queste giovani eroine, che sfidano la violenza psicologica e fisica dei mariti, che sfidano quell’ideologia che le vorrebbe ridurre a meri oggetti, sono un esempio anche per le giovani donne Italiane. Diceva Brecht “beato il mondo che non ha bisogno di eroi” perché, se così fosse, l’uomo forse avrebbe finalmente raggiunto quella condizione in cui ha appreso il rispetto dell’altro, che nasce sempre anzitutto dal rispetto dell’integrità del proprio io. Ma per arrivare a questo traguardo, sempre che sia contemplabile da parte della natura umana, occorre smantellare, pian piano, tutte quelle micro-strutture di potere che, a partire dalla quotidianità, disciplinano le nostre menti, prima ancora che i nostri corpi. La libertà, infatti, a differenza di quello che la società consumistica vorrebbe, non è poter fare tutto ciò che si vuole senza limiti, bensì avere il coraggio della scelta costruttiva, una scelta che sa legare il bene individuale a quello comune. Perché, se delle giovani donne coraggiose scelgono di fornirsi di strumenti culturali, il vantaggio è dell’intera collettività, che un giorno sarà sostenuta da donne capaci di farsi carico autonomamente delle loro responsabilità.

L’apparente differenza tra “nord” e “sud” del Mondo

L’emancipazione è un concetto dibattuto. La “cultura dominante” ci ha insegnato a considerare legati i termini “emancipazione” e “femminile”. Ma anche questo binomio non è automatico. Se si parla di “emancipazione femminile” è perché  è innegabile che, nel corso dei secoli -tanto in “Oriente”, quanto in “Occidente”- , le donne hanno vissuto una posizione di svantaggio all’interno di una prospettiva che ha privilegiato l’uomo, affidandogli il ruolo egemonico di decisore e depositario del potere. Benchè una forma di potere esista anche tra le mura domestiche, prerogativa del femminile, le donne sono rimaste escluse per secoli dalle dinamiche decisionali che hanno influenzato il “divenire storico”. Il ruolo femminile, anche quando è stato incisivo, ha sempre collocato le donne in posizioni dalle quali era possibile agire solo in secondo piano.  Lasciando da parte quella che Bourdieu definirebbe “la storia del dominio maschile”, la condizione attuale delle donne –nella sostanza- non sembra essere granchè mutata. Benchè nelle nostra società consumistiche le donne occupino ruoli rilevanti, anche in quegli ambiti un tempo prettamente maschili, e benché la loro libertà sia pressoché totale, ancora oggi il “femminile” è condizionato da antichi pregiudizi mai crollati. Tentando di uscire da una sterile logica duale, che contrappone “femminile/maschile”, la costruzione ideologico-materiale del “ruolo della donna” nelle “società avanzate” è ancora oggi problematica. Infatti, sempre di più ai nostri giorni, assistiamo al tentativo mass-mediatico e consumistico di riduzione della donna a un mero oggetto. Se nel “sud del  Mondo” questo avviene privando le donne di ogni dignità, anche con la forza e la violenza, nel “Nord del Mondo” questo processo si attua attraverso una violenza diffusa e sommessa, ma non per questo meno distruttiva. Se le donne vengono ridotte ai loro corpi, come fanno i mass-media e l’industria estetica e della moda che oggi domina i mercati, ciò che si crea è “un paradigma materialistico-riduttivistico” che vien introiettato dalle donne stesse che, pian piano, sviluppano un’immagine di sé che non può prescindere dalla violenza collettiva che produce l’ identificazione del “femminile” col corpo. Questa sarebbe la tendenza dominate indotta dal mercato e dal consumismo che ha sostituito ai rapporti e all’identità l’inter-scambiabilità di tutto con tutto. Infatti, là dove una donna è appiattita sul proprio corpo, quella donna è automaticamente abbassata al piano della sostituibilità con qualsiasi altra donna che abbia un corpo migliore. Private di un’identità forte e oggettificate, anche nelle “culture avanzate” le donne soffrono di un declassamento, forse ancora più subdolo di quello che viene attuato nelle culture “del sud del mondo”, per lo più di matrice islamica. Infatti, una cultura che come la nostra spaccia per emancipazione al massimo grado quella che, ad un’attenta analisi, altro non è se non una regressione sociale che pretenderebbe di riportare le donne indietro di secoli, riducendole nuovamente ad oggetti di un “incontrollato desiderio maschile”, è una cultura violenta, che ha come principale interesse la creazione e la stabilizzazione di ruoli sociali sempre più cristallizzati e diversificati, al fine di ristabilire una gerarchia di potere che differenzi definitivamente chi detiene il dominio, da chi, pur illudendosi di detenerlo, ne è in realtà solo uno strumento, privato di qualsiasi potere decisionale. E qui si scorge il nodo problematico principale: se le donne sono oggettificate, il problema non dimora nella contrapposizione apparente tra “donne-oggetto e desiderio maschile”, bensì dimora nella privazione di entrambi i soggetti qui in esame della loro autonomia decisionale. L’autonomia decisionale nasce dall’integrità dell’io e da un’identità forte e consapevole. Solo così uomini e donne posso ritornare ad essere protagonisti attivi della loro storia personale e, quindi, collettiva. Se manca l’autonomia decisionale, perché l’identità è spogliata dalla società di tutti quegli elementi che la mettono in condizione di sbocciare (il lavoro, e quindi la realizzazione oggettiva del sé; l’affettività come stabilità;  la possibilità d’incidere sul mondo circostante; delle relazioni incentrate sul disinteressato bene altrui –e quindi proprio-, anziché sull’uso strumentale dell’altro ecc.), l’io si riduce a un mero strumento, ad un contenitore che viene riempito di desideri e bisogni indotti dal consumismo, perdendo così ogni appiglio col “sé autentico”.  In questo senso, quindi, assistiamo ad un medesimo processo sia nel “sud”, che ne “nord del mondo”: il processo di destabilizzazione delle identità individuali e collettive che il potere odierno, assai più che nei secoli passati, attua. In quest’ordine di cose, è l’individuo stesso che accetta certe regole del gioco e si adatta a una “normalità” che, benché lo danneggi, appare ora come. Le donne che ho intervistato sono invece artefici attive di un risveglio, che le vede lottare per non accettare più una “sudditanza” imposta da qualcun altro. Ecco che la differenza tra “nord e sud del Mondo” scompare. Non esiste né un “nord”, né un “sud”, ma esistono solo individui in carne e ossa che con il loro coraggio e con le armi della consapevolezza sanno costruire nuovi orizzonti di vita.

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