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L'omaggio di Pratovecchio ad Alvaro Boattini. A lui intitolata la sala consiliare del nuovo Municipio

Il ricordo dell'aviatore in una lettera, scritta dalla moglie, a mezzo secolo dalla morte

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Come diceva anche Cicerone” La memoria è tesoro e custode di tutte le cose.” E’ dunque giusto che chi ha vissuto ricordi, e attraverso la propria testimonianza tramandi alle nuove generazioni.
Forse non tutti ricorderanno  chi era Alvaro Boattini a cui è stata intestata la Sala Consiliare del nuovo Municipio di Pratovecchio. Le generazioni più recenti quasi sicuramente o lo ignorano del tutto oppure lo sanno solo vagamente e per sentito dire.
Sarà emozionante riscoprire oppure  imparare a conoscere Alvaro attraverso le parole accorate e ancora  piene d’amore di Romana Boccalini, colei che è stata sua moglie e che continua ad amarlo profondamente ogni giorno della sua vita. Il racconto di una storia d’amore bella e intensa, ma al tempo stesso sublime e delicata che nemmeno la morte è riuscita spezzare. Uno scorcio di storia recente che non deve apparirci ormai troppo lontana, ma che al contrario deve servirci da esempio in un momento storico dove i valori sembrano andati persi.
“Ci fidanzammo ufficialmente nel 1955, dopo una lettera scritta da Alvaro a mio padre per avere il consenso dei miei genitori – scrive Romana su una pagina bianca che intitola RICORDI – come era regola in quei “lontani” tempi. Insistenti ed inutile erano state le sue richieste nei due anni precedenti, perché negative continuavano ad essere le mie risposte, intenta a finire lo studio nell’istituto magistrale. Il fidanzamento è stato un periodo molto lungo (5 anni), ma bello, nonostante la lontananza di Alvaro, specialmente durante il soggiorno di tre anni in Sardegna: era una gran festa il ritrovarsi nei giorni di licenza, scrivere, leggere, scambiarsi lettere…. La lettura di quelle lettere, gelosamente custodite, mi ha aiutato poi, durante una più lunga lontananza, quella che continua tutt’ora.
Nel 1960 il matrimonio: cerimonia religiosa nella chiesa parrocchiale, pranzo nel borgo da “Anita Caporalini”; viaggio di nozze a Pisa: la nuova residenza.
In questa città, ridente col suo bel corso dell’Arno, la nostra vita trascorreva serena: io fra pentole e libri, Alvaro tutto preso dall’interesse per lo sport ed il lavoro, con tanta passione in particolare al volo, da superare ogni anno il limite di ore consentito e recarsi nel 1962 nel Congo, poco dopo l’eccidio, a Kindu, dagli avieri della 46°Aerobrigata di Pisa. Una vita semplice, modesta, in linea con i tempi; avevamo vissuto gli ultimi momenti della 2° guerra mondiale, sapevamo cogliere ogni segno della ripresa e del rinnovamento.
I nostri amici erano i colleghi di Alvaro: uscivamo insieme, andavamo al cinema o a passeggio al centro della città; a me piaceva molto guardare le belle vetrine di abbigliamento, mi sentivo appagata, anche se non facevo acquisti. Eravamo felici, avevamo la macchina, una fiat 500 bianca e potevamo permetterci alcune visite fuori città. Le festività le passavamo quasi sempre a Pratovecchio, nella famiglia dei genitori e dei suoceri, intorno ad una tavola, per l’occasione, ben imbandita. Al ritorno verso Pisa, ogni volta, avevamo in borsa un profumato pollo arrosto, ripensandoci, credo di non aver ringraziato abbastanza la mamma per quel dono: negli altri giorni, sulla sua e sulla nostra tavola, profumava, quasi sempre, la frittata con patate e cipolle.
Abitavamo in via Livornese, in periferia, ma non lontano dall’aeroporto , sentivo e vedevo passare gli aerei con la frequenza con cui le auto passano per le strade di Pratovecchio, gli aerei mi erano diventati familiari; vivevo serena e lo ero anche quella mattina del 20 aprile 1964, nonostante il cielo grigio ed una fitta pioggerellina. Proprio quella mattina, Alvaro, quando stava per salutarmi nell’andare in aeroporto, mi disse sconvolto: “Ho fatto un brutto sogno.” Io, temendo di non riuscire con le mie parole a rasserenarlo, non lo trattenni, gli sorrisi, gli aggiustai il nodo della cravatta e ci abbracciammo. Sono ancora dispiaciuta per non aver voluto conoscere quel sogno, cogliere l’opportunità  di stare più a lungo con lui e tentare in ogni modo di rasserenarlo.  Un suo collega mi riferì di averlo visto entrare in aeroporto , poco prima del tragico volo, con un  atteggiamento insolito, senza l’aria scanzonata che lo caratterizzava.
Fui molto sorpresa, la stessa mattina alle ore 13, quando, al suono del campanello, sulla porta d’ingresso  non vidi mio marito che tornava dal lavoro, ma due avieri che non conoscevo, lessi subito la brutta notizia sul loro volto, ma cercarono di tranquillizzarmi , dicendomi che c’era ancora la speranza del salvataggio, per cui li sollecitai a prender parte al soccorso in atto. Non ricordo altro di quel giorno e poco dei giorni successivi: in una situazione così tragica ed inaspettata la mia sofferenza prevaleva sulla consapevolezza e partecipazione: lasciai far tutto a mio suocero e alla mia mamma, ma non tardai a trovare la forza di reagire, dovevo essere forte come mio marito: lui aveva affrontato la morte, io dovevo affrontare la vita.
Rinnovai  la mia promessa di amore ad Alvaro e ripresi il mio cammino, aiutata dalla fede, dal lavora e dalla famiglia dei genitori e dei suoceri in un primo momento e successivamente quella di mia sorella e mia nipote, provando così la gioia di “fare la mamma e la nonna”.

“Alvaro è felice perché è morto volando – dice la sorella Franca – amava volare perché lo faceva sentire vicino a Dio”

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