Storie struggenti e di speranze immortali.
“Nessuna sapeva quando sarebbe venuto il suo turno, quando sarebbe sparita in fondo al corridoio senza lasciare altra traccia che quelle grida. E così vivevano, aspettavano e obbedivano all’ombra di un terrore al quale – lo sapevano – non potevano sperare di sfuggire ancora a lungo”.
Sahar Delijani ha raccontato una storia intensa e commovente che, mescolando finzione e realtà, ha condotto il pubblico del Giardino delle IDEE in Iran, disegnando il ritratto di un popolo oppresso da un regime brutale ma desideroso di libertà.
Tanto pubblico, moltissimo.
Sala gremita sin dalle ore 16.00 e libri esauriti già prima dell’inizio dell’incontro.
Sahar Delijani si è presentata in tutta la sua semplicità e bellezza.
La giornata aretina di Sahar era iniziata all’ora di pranzo con la visita del centro storico della città e con la realizzazione di magnificati scatti fotografici rubati da Luca Brunetti.
All’ingresso nella Sala delle Muse, lei, nata nella prigione di Evin a Teheran, ha raccontato con intensità gli effetti della Storia su una popolazione stremata.
In una vecchia casa nel centro di Teheran e sotto le fronde di un bellissimo albero con fiori rosa e viola, Sahar Delijani ha intrecciato le storie di Maman Zinat, Leila, Forugh, Azar, Dante e Sara.
Tutti membri della stessa famiglia ma brutalmente separati dal regime.
La giovane Azar, arrestata per motivi politici, partorisce in cella una bambina che ridona speranza a moltissime donne terrorizzate proprio mentre Maman Zinat cresce i suoi tre nipotini in attesa che le sue figlie possano finalmente uscire dalla prigione e cerca di tenere unite tre generazioni impaurite.
Sahar non è formalmente un’esule.
“La mia famiglia se n’è andata legalmente – ha ricordato – ho un passaporto per tornare, padre e madre vanno e vengono abbastanza spesso”.
“Nonostante tutto – ha aggiunto - l’Iran è un Paese dinamico, con giovani molto colti, che ti comunica una grande energia. Anch’io ci torno volentieri”.
“Nonostante il regime appaia inattaccabile, credo non lo sia davvero – ha continuato - ci sono grandi tensioni nel gruppo dirigente, è un segno che qualcosa sta cambiando”.
Ma al tempo delle cosiddette «primavere arabe» il regime non sembrò affatto indebolito.
“Se la repressione del 2009 è stata così violenta, forse è anche un segno di paura” ha confermato.
Che cosa si augura oggi Sahar?
“Che il mio libro venga pubblicato in Iran. Mio padre lo sta traducendo in persiano”.
Non teme reazioni?
“Non so. Ma spero lo legga il maggior numero di persone. Un libro non è mai un nemico”.
Già, che cos’è un libro?
Nel caso di Sahar Delijani è il risultato di una lunga incubazione.
“Ho cominciato a 26 anni. Avevo alle spalle dei romanzi non pubblicati e una laurea in letteratura comparata, senza corsi di scrittura – ha ricordato - Capivo che qualcosa non funzionava in ciò che avevo scritto prima, e cercavo di metterlo a fuoco. Così sono ripartita con dei racconti, attingendo alle memorie di famiglia, alle cose che sentivo raccontare da bambina. E a poco poco mi sono resa conto che riguardavano sempre lo stesso tema: gli eventi cioè tra il 1983 e il 1988, tra la svolta autoritaria, le ondate di arresti e, nell’ultimo anno della guerra con l’Iraq, la strage di chi era rimasto nelle prigioni del regime. I miei genitori fortunatamente era stati scarcerati prima, ma altri tra cui un mio zio non ebbero la stessa fortuna. Era quello il romanzo in cui farli confluire”.
Tantissima applausi al termine dell’incontro e una accoglienza davvero strepitosa dal parte del pubblico del Giardino delle IDEE.

