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La recensione di Roberta Maggi "La regola del silenzio"

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SILENZIO, PARLA ROBERT
La regola del silenzio di Roberta Maggi*

* Laureata in storia e critica del cinema 

 

L’impressione è sempre un po’ la stessa quando finisce la visione di un film di Robert Redford. Si capisce che c’è del buono, si è seguito la trama con piacere ma si porta dietro la sensazione che tutto ciò non basti. Quando fu acclamato alla sua prima regia col sottile, docile Ordinary people - Gente comune - correva l’anno 1980 e fu un bel successo che portò a credere che per l’attore Redford si fosse aperta la nuova era professionale da regista, come quel Clint Eastwood che cresceva e cresceva, rivelando un talento, forse inaspettato, di autore. Però alla fine ciò che ci piace ricordare di lui sono le magnifiche interpretazioni che Pollack, Coppola, Pakula e altri grandi di Hollywood gli hanno offerto, ruoli indimenticabili e magari è proprio per questo che si prova una clemenza quando lui si accinge a stare dietro e davanti alla macchina da presa. Non che La regola del silenzio, ben accolto anzi dalla critica, sia un cattivo film ma come spettatori pretenziosi abbiamo di che essere anche severi. La trama è interessante, riporta all’attenzione del pubblico il tema della contestazione in quelle che furono le frange estreme dei gruppi pacifisti nell’America impegnata militarmente nella guerra del Vietnam. Sembra tra l’altro siano argomenti che gli Stati Uniti stessi facciano fatica a ricordare, messi come sono di fronte a pagine dolorosissime della loro storia. Al personaggio di Susan Sarandon si deve una buona spiegazione dello stato d’animo di quei gruppi e delle loro motivazioni, degli ideali e delle conclusioni che avevano portato a intenzioni più incisive e violente. Interessante è quel quadro generale che ritrae il “come si vive dopo” e cosa si è dovuto fare per sfuggire all’assolutismo della Legge avendo perseguito con cotanta passione certi ideali. Rimorsi e rimpianti. Che colpiscono in pieno anche il personaggio di Redford che parte in fuga per la chiusura del cerchio in difesa della verità. Globalmente anche se si è attratti dall’insieme, la situazione intrigante e ingarbugliata rimane troppo in superficie da apparire banale. E poi, a malincuore, va ammesso che diventa difficile perdonare l’età anagrafica dell’interprete-attore-regista rispetto al personaggio. La storia ci coinvolge in questa fuga che svela i fatti del prima, del dopo e del durante grazie alla figura del giovane rampante giornalista, ricercatore impavido della verità, dietro la quale però se ne celano molte, salvaguardate da un condiviso silenzio che serve alla fine a proteggere non solo i singoli ma soprattutto il “fattore umano” in generale. A questo silenzio che Shia LaBeouf, co-protagonista con Redford, decide di cedere, noi ci accodiamo e portiamo rispetto. Però a pensarci bene la storia raccontata non può non apparire alimentata dal solito afflato nostalgico e Redford non si accorge di riproporre sempre la rincorsa del giusto a cui fanno da contraltare Stampa, Governo, Organi Federali, ontologicamente schierati contro gli uomini e i loro ideali. Innamorati, come lui, dei giorni del condor, del cavaliere elettrico, di tutti gli uomini del presidente, lo perdoniamo. Ma ci permettiamo di suggerirgli: va bene la morale purché nelle contraddizioni si tocchi davvero il cuore. Ne La regola del silenzio il magma del plot esce raffreddato e se anche ci soccorre la consapevolezza che non c’è tanto di nuovo da raccontare su quegli anni turbolenti, dai quali hanno attinto a mani bassi cinema e letteratura, vorremmo che fosse il come lo si elabora a rapirci.

 

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